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Veronica Zucchi: Intervista esclusiva con uno dei nuovi veri talenti del cinema italiano d’autore

 

Chi è, nella realtà quotidiana, Veronica Zucchi?

Fondamentalmente,  una sognatrice malinconica.

Un’attrice ingenua – in senso schilleriano -, istintiva, inquieta.

 

Che cosa l’ha spinta a fare l’attrice?

Lo stupore di fronte alla complessità dell’animo umano è l’emozione principale che mi ha portato verso il teatro e, con essa, il desiderio di conoscere meglio i nostri sentimenti, desideri, ambizioni e ossessioni, dei nostri fantasmi.

Prima di salire su un palcoscenico, è necessario preparare un’enorme valigia.  E’ un viaggio paradossale e rischioso, ma quando si sale su questo treno è difficile tornare indietro o fermarsi alla prima stazione.

Una volta trasferitami a Roma, dopo lo studio presso l’Accademia d’arte drammatica Nico Pepe di Udine, ho avuto la fortuna di incontrare Luca Archibugi, regista, drammaturgo e poeta.

Lavoriamo insieme da nove anni. Abbiamo una comune visione del teatro che si fonda, in particolare, sull’importanza della musica, del suono, sull’interazione scenica come partitura e sulla ricerca di un linguaggio perduto, ovvero sull’utilizzo di una comunicazione frammentaria (sull’asse Beckett-Pirandello) che però, a tratti, è resa possibile, di volta in volta, dalla musica, dalla poesia, da un ricordo, dalla necessità di ricordare, da un amore o da un fallimento. 

Per esempio, il primo spettacolo – risale al 2009 – Immobildream (testo di Luca Archibugi, regia di Alberto Di Stasio), messo in scena presso l’Atelier Meta-Teatro in Trastevere, narra la storia di due coppie impegnate in un trasloco, ostacolato però dalle patologie dei personaggi femminili. Interpretavo Irene: donna affetta da anomia, cioè non associavo i nomi alle cose. Lo spettacolo era dedicato a Friedrich Hölderlin che, nella vicenda, era evocato attraverso la figura dello psicoanalista Scardanelli. I personaggi erano nevrotici e terrorizzati dal “fuori”, da quel territorio minato che è il mondo.

 

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Quali sono state le sue esperienze professionali più significative?

A teatro ho appunto lavorato molto con Luca Archibugi.  Degli innumerevoli  spettacoli fatti insieme, ho amato,  in particolare, Un colpo a vuoto e  Orfeo bandito all’asta.

Del 2010 è Un colpo a vuoto (testo e regia di Luca Archibugi), andato in scena presso l’Atelier Meta-Teatro e rappresentato, poi, al Festival Internazionale di Andria Castel dei mondi.

E’ uno spettacolo a cui sono particolarmente affezionata, anche per le atmosfere felliniane de La strada e per la figura della giostraia. Chi di noi – credo – non ha almeno una volta pensato, da bambino o – perché no – da adulto, di fuggire con i giostrai o con i trapezisti del circo?

Interpretavo Justine (mi sono ispirata, per l’illusa e poetica ingenuità del personaggio a Gelsomina de La strada), un’orfana abbandonata, adottata da una giostraia del bancone del tiro a segno (Enrica Rosso). Così Justine impara il mestiere. Le due donne vagabonde non hanno una casa, ma una roulotte, né un linguaggio: il linguaggio è un linguaggio ibrido, un assemblaggio di dialetti; non hanno un uomo. Non possono infatti permettersi una relazione stabile, si spostano sempre, da Luna Park a Luna Park.

Persino i fucili, ovvero gli strumenti che hanno a disposizione per far giocare i clienti, sono truccati. Non c’è redenzione se non nell’amore fra le due donne. Il solo personaggio maschile, Manolo – presente/assente sulla scena (viene nominato ripetutamente, ma non si vede mai)- si rivela infine (non lo sappiamo) un uomo inaffidabile, forse un assassino. Lo spettacolo era scandito dai tempi della musica: dal Preludio alla Fuga, dalla Sarabanda del Luna Park alla Ciaccona dei loro ricordi.

Orfeo bandito all’asta è del 2012 (testo e regia di Luca Archibugi). Era uno spettacolo-laboratorio, rappresentato al Teatro di Tor Bella Monaca, poi al Teatro Colosseo e infine al Tordinona. Interpretavo Euridice/Cecilia.

Cecilia, affetta dalla sindrome di Asperger, una particolare forma di autismo. Unica sua confidente è la zia Demetra (Almerica Schiavo), che Cecilia segue ovunque e con la quale si diverte con giochi da bambina (con il gioco dello zoo, ad esempio, che consiste nel riprodurre suoni e movenze di animali). Tutto cambia quando Cecilia incontra Orfeo. Via via diviene consapevole di essere Euridice. Orfeo ed Euridice si incontrano nel ricordo di chi non c’è più, dei morti, nella poesia (“Dove sono, quando piove? Dov’è che sono finiti?…”).

Ma, come nel mito, Orfeo si volta ed Euridice è risospinta nell’Ade. Un’Ade che non è dissimile dai giardini di Piazza Mazzini, da Piazza dei Quiriti, insomma dal mondo reale.  Ho amato questo personaggio. Era come essere risospinti in un’infanzia verginale, non contaminata da nulla, senza sofferenza. Eppure Cecilia sapeva di essere sola, di essere un’estranea. Coesistevano in lei la gioia per la protezione della zia, la solitudine per la propria diversità e una premonizione (era anche veggente).

L’incontro con l’amato era possibile solo attraverso il dolore, il ricordo della morte. Il dolore si trasfigurava: era pietà e amore. Questo la rendeva divina. Forse mi sto dilungando troppo, non è facile intervistare una persona abituata alla digressione (ride).

 

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Nella recensione al suo ultimo spettacolo, L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello (di e con Alberto Di Stasio), Franco Cordelli l’ha definita “bergmaniana”. Ma lei è innocente o finge la sua innocenza?

Non lo so! (ride). Essere definita “bergmaniana” dal più grande critico teatrale italiano è stata una forte emozione. Inoltre, per il ruolo dell’Avventrice, mi sono ispirata proprio a Persona di Bergman.

 

E poi c’è stato l’incontro con Paolo Sorrentino…

Ho incontrato Paolo Sorrentino nel 2012, sul set de La grande bellezza; ballavo con Carlo Buccirosso su un magico tappeto d’arance nel giardino di una villa. Le parole di Paolo Sorrentino, durante un breve quanto intenso dialogo con lui, mi hanno fatto venire “voglia di cinema”. 

Così come l’esperienza successiva, sempre con Paolo Sorrentino, sul set svizzero de La giovinezza. Dopo quattro provini  mi ha scelto per far parte del gruppodegli amici “Jimmy Tree/Kozelek”. Veder recitare attori del calibro di Michael Caine, Paul Dano, Rachel Weisz e Jane Fonda mi ha insegnato molto. L’atmosfera che si respirava sul set è stata davvero indimenticabile.

 

Fra i suoi innumerevoli impegni, so che ora si sta anche dedicando ad alcuni spot sociali sul web…

Ho parallelamente lavorato come sceneggiatrice per alcuni documentari di Rai cinema. Non ho un gran rapporto con la tecnologia, tuttavia ritengo che per parlare con i ragazzi sia lo strumento più efficace.

Così voglio cimentarmi con alcuni “spot sociali” che trattano argomenti importanti (droga, alcol, azzardopatia) da mandare via web. Non intendo però usare toni moralistici, bensì parodistici. Ho notato, infatti, come la parodia sia capace di provocare il senso critico di ciascuno, senza pedanteria, anzi quasi giocando.

 

Ecco, per concludere, cosa ne pensa del gioco?

Beh, sono un’attrice.

 

 

 

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